Il genitore collocatario per trasferirsi necessita del consenso dell’altro genitore o dell’autorizzazione del Tribunale

L’affidamento e il collocamento dei figli rappresentano da sempre il nodo cruciale delle separazioni e dei divorzi, ma anche dello scioglimento delle coppie di fatto, dividendo le coscienze della gente e le posizioni della giurisprudenza e della dottrina.

Nonostante nel gergo comune “affidamento” e “collocamento” siano utilizzati come sinonimi, si tratta in realtà di due concetti distinti e indipendenti, atteso che il primo attiene alla responsabilità genitoriale, cioè all’assunzione delle decisioni relative alla vita dei figli (crescita, salute, formazione scolastica, educazione), mentre il secondo indica il luogo di residenza prevalente del minore dopo lo scioglimento della famiglia, che può essere individuato presso la madre o presso il padre.

Nel caso più frequente dell’affidamento condiviso, ad esempio, le scelte relative ai figli vengono concordate da entrambi i genitori, mentre la collocazione abitativa è unica e viene fissata, anche ai fini anagrafici, soltanto presso uno dei due genitori.

Con riguardo al collocamento, in caso di mancato accordo, sarà il giudice a dover stabilire chi tra la madre e il padre sia più idoneo ad occuparsi prevalentemente dei minori, assumendo le vesti di “genitore collocatario” e convivendo con gli stessi; nel contempo il giudice – tenuto conto dell’interesse e delle esigenze dei minori, nonché delle particolarità del caso concreto – dovrà  altresì regolamentare i tempi e le modalità della frequentazione dei figli con l’altro genitore.

Tale soluzione viene comunemente definita “collocamento prevalente” e allo stato attuale rappresenta ancora la regolamentazione preferita dai Tribunali, in quanto in grado di garantire al minore la stabilità di un nido domestico di riferimento in cui studiare, riposare, giocare, ricevere gli amici, evitando al medesimo di doversi spostare di continuo tra le diverse abitazioni dei genitori.

Ciò detto, una domanda sorge spontanea: Quanto conta la volontà dei figli nella scelta del collocamento? La legge prevede che il giudice, ai fini della decisione, possa ascoltare il figlio minore che abbia compiuto i 12 anni di età e anche il bambino che abbia un’età inferiore, nel caso in cui lo stesso sia ritenuto capace di discernimento, ossia di comprendere le situazioni e gli eventi, di ragionare in modo autonomo e di formarsi una sua opinione.

Pertanto, se nella prassi è raro che bambini piccoli siano sentiti in Tribunale, i figli più grandi, prossimi al compimento della maggiore età, sono solitamente ritenuti in grado di scegliere con quale genitore vivere in via prevalente. In ogni caso, al genitore collocatario spetta il prezioso compito di garantire alla prole minore di età un solido legame con il genitore che vive altrove, agevolando le visite e collaborando per un sereno esercizio della bigenitorialità.

Negli anni potrebbe però sorgere la necessità per il genitore collocatario di trasferirsi altrove – per esempio per motivi lavorativi o altre esigenze personali. Cosa accadrebbe in questo caso? Avrebbe il diritto di trasferirsi liberamente portando con sé i figli? Sul punto va preliminarmente ricordato che la decisione di un coniuge separato (o di un ex convivente) di trasferire la propria residenza lontano da quella dell’altro è un diritto costituzionalmente garantito e, pertanto, non è sindacabile in sede giudiziaria. Tuttavia, l’esercizio di tale facoltà, in presenza di minori co-residenti in forza di un provvedimento giudiziario di collocamento, pone seri e delicati problemi la cui risoluzione, in mancanza di accordo tra i genitori, spetta al Tribunale.

In questi casi il Giudice, nel valutare l’opportunità o meno di autorizzare il trasferimento, è chiamato a tenere conto di due fattori: In primis delle concrete esigenze poste a fondamento della richiesta (i motivi lavorativi sono di norma considerati meritevoli di attenzione) e -inoltre- dell’interesse del minore a mantenere un solido legame con entrambe le figure genitoriali e con l’ambiente in cui il medesimo è inserito.

Si tratta, pertanto, di un giudizio fortemente legato al caso concreto (le pronunce in materia sono infatti molto contrastanti), che viene compiuto tenendo conto – tra le altre cose – dell’età del minore, della solidità dei legami che il medesimo ha stretto nel contesto sociale in cui è cresciuto e – in parallelo – della possibilità di reinserirsi in un nuovo ambiente. E’ chiaro che più il figlio è piccolo, tanto più sarà facile il suo reinserimento in un luogo diverso.

A cura dell’Avv. Sara Bertolai